Diritto all’oblio e la pubblicità del processo e delle sentenze, quale bilanciamento.

Diritto all’oblio e la pubblicità del processo e delle sentenze, quale bilanciamento.

Tra i molteplici ambiti in cui la normativa sulla tutela dei dati personali può impattare, il trattamento dei dati giudiziari risulta sicuramente di particolare rilievo. Lo si riscontra quotidianamente attraverso la consultazione degli articoli online relativamente alla cronaca giudiziaria che sono pervasi da informazioni carpite dalle sentenze o provvedimenti giudiziari. Da qui l’esigenza da parte degli interessati di appellarsi al diritto all’oblio per poter riequilibrare, laddove possibile, l’autodeterminazione informativa sbilanciata verso un trattamento eccessivo dei dati in ragione del diritto di cronaca.

Ma se il diritto all’oblio sulle questioni giudiziarie oggetto di articoli di cronaca può giustamente essere controbilanciato dal diritto di cronaca, come lo stesso diritto può bilanciarsi con la pubblicazione di sentenze a scopo divulgativo informativo?

Tralasciando qui l’aspetto, non di minor importanza, del diritto di cronaca (di cui si parlerà in altra sede), ci potremmo concentrare sul fenomeno della diffusione dei dati personali attraverso la divulgazione di sentenze (per esempio della Cassazione) per scopi di documentazione giuridica, intesa come attività di riproduzione e diffusione di sentenze o altri provvedimenti giurisdizionali in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica, ovvero di raccolta, studio e ricerca in campo giuridico, su riviste di settore, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, compresi i sistemi informativi e i siti istituzionali dell´Autorità giudiziaria. (ambito https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/docweb-display/docweb/1774813#a). Per giuristi e avvocati è normale prassi consultare le pronunce degli organi giudiziari principali, da sempre le sentenze della Cassazione sono tra i primi testi che vengono consultati dai professionisti su base quotidiana. Le banche dati ufficiali che raccolgono questo patrimonio informativo sono in continuo aggiornamento e grazie alla rete internet e ai motori di ricerca, la diffusione al di fuori delle banche dati ufficiali diviene ormai prassi quotidiana. Prassi che sicuramente ha facilitato la vita del professionista alla ricerca dell’ultima sentenza più aggiornata e esaustiva, ma che in maniera pervasiva, tipica dell’informazione online, ha di fatto travolto e spaccato gli argini della riservatezza delle persone che, loro malgrado, si sono trovate ad essere  protagoniste della “vicenda giudiziaria” che rappresenta un pezzo della loro vita (a volte molto importante) costellata spesso da sofferenza e scelte processuali non sempre semplici né indolori. Il risultato di questa diffusione è spesso la pubblicazione di interi atti processuali su siti di facile consultazione da parte dell’utente medio online e una diffusione sproporzionata di dati personali in palese violazione dei principi base della minimizzazione, dell’essenzialità e della giusta finalità del giusto trattamento dei dati.

Non solo: in epoca di pandemia molti tribunali hanno pubblicato in chiaro sui loro siti i rinvii delle udienze senza aver cura di oscurare i dati giudiziari degli imputati. Si tratta di fatti gravissimi in palese violazione dei più elementari principi sanciti dal Reg. Ue 2016/679, c.d. Gdpr.

Si tratta sostanzialmente di una mancanza di cultura della privacy che pervade paradossalmente anche gli uffici giudiziari che quella cultura dovrebbero diffonderla applicando correttamente le norme oggi in vigore.  

Passata la fase acuta della pandemia molti dati giudiziari sono ancora reperibili online proprio sui siti dei tribunali e degli ordini degli Avvocati.

Basta inserire il nome della persona nei principali motori di ricerca per rendersene conto.

Si dirà che in questo modo è più facile avvisare gli avvocati delle date dei rinvii. Eppure, anonimizzare i dati degli interessati è operazione semplicissima oltre che un atto dovuto. I danni causati agli interessati sono immani e desta enorme preoccupazione che ad esporre a rischio le persone siano proprio quegli uffici che dovrebbero tutelarli.

E’ toccato addirittura presentare un Reclamo al Garante per la protezione dei dati personali contro il sito Italgiure, gestito dalla Corte di Cassazione, che fino a qualche giorno fa pubblicava in chiaro i nomi degli imputati nelle sentenze che quotidianamente pubblicava on line.

Già nel 2014, l’allora Presidente del Garante per la protezione dati, A.Soro si soffermò sull’argomento della diffusione della “giustizia telematica” mettendo in evidenza una questione definita ai tempi “inedita” in quanto mai prima di allora ci si era posti il problema di bilanciamento tra due esigenze fondamentali e imprescindibili dell’ordinamento civile: il confronto tra la pubblicità del processo e delle sentenze e il diritto alla riservatezza delle parti e dei terzi che raffigurano nei processi.

La domanda che ci si deve porre è sostanzialmente questa: è necessario che, in nome della pubblicità della sentenza come definita dalla legge, chiunque abbia il diritto di conoscere “lo spaccato di vita che emerge in ogni dettaglio di una sentenza?” (Soro) Soprattutto, se il fine della pubblicazione delle sentenze online è quello di conoscenza e condivisione dei principi giuridici affermati dalla giurisprudenza, quanto è necessario divulgarne gli aspetti umani di cui la vicenda processuale è intrisa? Soprattutto alla luce dei noti meccanismi di indicizzazione dei contenuti operati dai motori di ricerca che, attraverso il meccanismo delle query di ricerca caratterizzate dall’individuazione di keyword associate tra il nome e il cognome di un qualsiasi individuo, possono restituire un complesso di informazioni idonee a descrivere nel dettaglio la personalità dell’interessato, restituendo una precisa identità digitale più o meno positiva in relazione alle informazioni raccolte. Configurando un rischio alto per le libertà dell’interessato (art.35 GDPR e la Valutazione d’Impatt).

Diffondere dati giudiziari senza una base giuridica legittimante è attività illecita.

La raccolta di tali informazioni può dar luogo a quella che viene identificata come “attività di profilazione” sull’interessato. La profilazione è quell’attività definita dall’art. 4 del GDPR come “qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica, in particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica”. Articolo che deve essere letto in associazione con il considerando 71 dove si legge esplicitamente: “al fine di garantire un trattamento corretto e trasparente nel rispetto dell’interessato, tenendo in considerazione le circostanze e il contesto specifici in cui i dati personali sono trattati, è opportuno che il titolare del trattamento utilizzi procedure matematiche o statistiche appropriate per la profilazione, metta in atto misure tecniche e organizzative adeguate al fine di garantire, la minimizzazione del rischio di errori e al fine di garantire la sicurezza dei dati personali secondo una modalità che tenga conto dei potenziali rischi esistenti per gli interessi e i diritti dell’interessato e che impedisca tra l’altro effetti discriminatori”.

In una circostanza così descritta, qualora una sentenza venisse diffusa sui motori di ricerca, la finalità della divulgazione della sentenza riportante i dati personali in chiaro non sarebbe più solo l’informazione giuridica utile al professionista, ma potrebbe sconfinare in un trattamento che andrebbe ben oltre quello che ci si aspetta dalla divulgazione accademica, impattando in maniera spropositata sulla vita e le libertà dell’interessato compromettendo la sua reputazione diffondendo in maniera eccessiva dati e informazioni che raccolte da utenti terzi, diversi dagli accademici, come le banche dati di informazioni commerciali i cui server potrebbero trovarsi su territori extra UE e che, a fronte di salate parcelle, creano schede di profilazione per gli interessati (vedi il caso World Check e tanti altri).

Fin dalla prima stesura del codice privacy di è cercato di disciplinare la diffusione dei dati personali nelle sentenze, ancora oggi è in vigore l’art. 52 Codice Privacy del d.lgs. 196/2003 che prevede che, fermo restando quanto previsto dalle disposizioni relative alla redazione e al contenuto di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado, l’interessato può chiedere, per motivi legittimi, che sia apposta sull’originale della sentenza o del provvedimento un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, l’indicazione delle sue generalità e di altri dati identificativi riportati nella sentenza o nel provvedimento.

La procedura descritta è attuale e opportuna ma il problema rimarrebbe per quei provvedimenti che non hanno fruito di questa prassi. I dati personali degli interessati rimarrebbero pertanto a disposizioni di tutti con buona pace della tutela dei principi cardine del buon trattamento dei dati personali.

Volendo, però, operare un giusto bilanciamento tra esigenze di riservatezza e pubblicità delle sentenze, tenendo conto della modalità di diffusione della stessa attraverso l’indicizzazione nei motori di ricerca su descritto, tutte le sentenze diffuse per fini divulgativi e informativi dovrebbero essere opportunamente anonimizzate in nome del bilanciamento dell’interesse pubblico con la riservatezza del singolo in quanto “ai fini della conoscenza dei principi giuridici affermati dalla giurisprudenza, quanto è necessario dare un nome alle parti, ai testimoni, a chiunque sia anche solo incidentalmente citato in sentenza? Siamo stati sinora abituati – è vero, anche se non è detto che sia un bene – a identificare le sentenze con il nome delle parti, avendone letto massime e commenti su riviste giuridiche. Ma – ed è questo il punto – la divulgazione ´libera´ sul web, con accesso indiscriminato perché privo di ogni filtro è davvero identica alla pubblicazione della stessa sentenza su di una rivista giuridica cartacea?” Soro.

In quest’ottica il Garante ha da sempre perorato la causa dell’assoluta anonimizzazione delle sentenze prima della pubblicazione online sotto qualsiasi forma in aggiunta ai meccanismi idonei per impedire l’indicizzazione di questi contenuti nei motori di ricerca, vero luogo dove si consuma la diffusione spropositata di questi dati personali, con lo scopo di effettuare quel giusto bilanciamento tra la pubblicità del processo e delle sentenze e il diritto alla riservatezza delle parti e dei terzi che raffigurano nei processi. Ultimamente la sensibilità del legislatore sembra aver accolto l’importanza del diritto all’oblio (Riforma Cartabia), nella prassi già da tempo si cerca di rendere effettivo questo orientamento. La collaborazione delle istituzioni in questa direzione è sicuramente elemento fondamentale.

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